Data pubblicazione: 15-apr-2021

Tra le distorsioni storiche che maggiormente si affastellano intorno alle celebrazioni del 25 aprile, una delle principali riguarda la narrazione della Resistenza, della lotta partigiana, che sempre più spesso viene messa in discussione con la solita strategia del luogo comune, dell’affermazione generica, ma detta con sicumera, e che è possibile sintetizzare proprio con la frase che fa da titolo al testo di questa settimana: Anche i partigiani però…, della storica Chiara Colombini. Certamente il racconto delle vicende che hanno visto coinvolti le donne e gli uomini che in un modo o in un altro hanno avversato il fascismo è stato sempre altalenante in Italia. In un primo momento per la volontà di voltare pagina, poi perché influenzata dagli episodi tragici degli anni di piombo, ma è a partire dai primi anni Novanta del Novecento che, come afferma l’autrice di questo scritto limpido e deciso, «il revisionismo rompe gli argini». Finché infatti il Paese era ancora guidato da formazioni politiche formatesi (o riformatesi) negli anni del fascismo e della lotta resistenziale, le riserve nei confronti dell’impegno partigiano nel combattere la dittatura dovevano fare i conti, se non altro, con un certo pudore, una certa vergogna. Nell’ultimo trentennio, invece, quella preoccupazione non c’è più stata e la situazione ha assunto i toni che conosciamo, arrivando non solo a mettere in dubbio il senso della Resistenza, ma anche al tentativo di riabilitazione dei vinti, presentati come bravi ragazzi che credevano di stare dalla parte giusta, come se fossero degli ingenui sprovveduti, o, peggio ancora, i pochi in grado di non cedere alla tentazione di tradire (di tradire le leggi razziali, il colonialismo, la guerra di aggressione, l’oro alla Patria, l’abolizione delle associazioni non dichiaratamente fasciste, dei partiti, dei sindacati, la limitazione della libertà di riunirsi, di parlare, di esprimere dissenso, l’obbligo per gli insegnanti di indossare la camicia nera, per gli alunni di fare il saluto alla foto del Capo ogni mattina prima delle lezioni, ecc.)

E allora, si chiede Colombini, perché vale la pena parlarne? Perché la Resistenza «…il fascismo l’ha sconfitto…»

La lotta partigiana è stata definita inutile, ci ricorda la storica, ma, aggiungiamo noi, ci ha permesso di riabilitarci agli occhi delle potenze vincitrici. Chi non ricorda il De Gasperi costretto a dire: «Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me.»(1) Cosa avrebbe mai potuto dire, anzi, come avrebbe potuto parlare, se almeno una parte degli italiani, quei «quattro gatti» di partigiani, non avessero agito dimostrando che il Paese non era solo fascismo?

Quattro gatti, si diceva, molti dei quali uccisi e appesi bene in vista, perché fosse chiaro il destino che avrebbe colto chiunque avesse agito come loro, con loro, per loro. Eppure il numero dei partigiani cresce nel tempo. Anche per opportunismo, in alcuni casi, non c’è dubbio (la storia si racconta tutta), ma si arriva alla liberazione di 125 città prima dell’arrivo degli Alleati. Da sole.

E poi l’altro cavallo di battaglia dei detrattori della Resistenza, di chi vede nel 25 aprile una celebrazione da mettere in discussione: «tutti comunisti», questi partigiani. Certo, tutti comunisti, tranne il 20% dei combattenti delle «Giustizia e Libertà, collegate al Partito d’azione; mentre il restante 30% va diviso tra le Autonome, legate talvolta al Partito liberale e spesso di ispirazione militare e monarchica, le Matteotti, organizzate dal Partito socialista, e le cattoliche, che si richiamano alla Democrazia cristiana.» Alla fine le Brigate Garibaldi contano per il 50%, la metà insomma, da cui andrebbe scremato anche il numero di chi vi operava senza adesione ideologica al comunismo, ma solo perché lì era finito per amicizia, parentela, conoscenza. Basti pensare al Partigiano Jhonny (2) di Fenoglio, che pur di intraprendere la lotta antifascista inizia a combattere nella prima Brigata che trova: una Garibaldi, per poi cambiare fazzoletto appena può, scegliendo quello che più si addice alle sue idee. Nelle formazioni si trova di tutto: renitenti alla leva di Salò; militari del Sud (molti) rimasti tagliati fuori, lontani dalla propria terra dopo l’8 settembre, per cui parlare della Resistenza partigiana come esclusiva del Settentrione è un errore; stranieri che per varie ragioni si trovano in Italia; donne (guarda un po’), le uniche che possono essere definite volontarie vere, perché a esse non veniva richiesto di arruolarsi, né di prendere parte. Avrebbero potuto, le partigiane, lasciare agli altri quella guerra, ma hanno scelto di intervenire.

In un sistema tanto variegato, ci ricorda Colombini, una parola deve guidare chiunque voglia accostarvisi senza volontà mistificatoria: «complessità». Tutto quanto accade in quel periodo della storia del Pese è complesso, non si capisce perché dovrebbe potersi semplificare il fenomeno resistenziale. Non si spiega come si possa pensare di racchiuderlo in quelle poche frasi di cui dicevamo all’inizio. Ma vediamo ancora un paio di questioni, per dare un’idea ancora più evidente dello splendido lavoro dell’autrice, un testo che dovrebbe leggere chiunque abbia intenzione di fare formazione su questi temi.

I partigiani sono accusati di dilettantismo, di essere ladri, persino di provocare le stragi dei nazifascisti.

Partiamo da quest’ultimo punto, che segue una logica per cui senza lotta armata non ci sarebbero state le rappresaglie e la conseguente uccisione di tanti innocenti. Non serve molto acume per capire che, dietro una simile affermazione ne sta un’altra, inquietante: i nazifascisti non avevano intenzioni cattive nei confronti della popolazione, sono solo stati costretti a reagire. Si può davvero ammettere una cosa del genere? E se anche si avesse tanto coraggio, come si spiegherebbero queste cifre? Strage di Sant’Anna di Stazzema, 335 vittime di cui: 87 partigiani, 100 antifascisti, 67 ebrei, 9 militari, 11 carabinieri e 61 assassinati senza alcuna spiegazione (3).

Consideriamo insieme le altre accuse ai partigiani. Dilettanti, i più, lo erano in quanto gente comune che imbracciava un fucile per lottare contro il fascismo; ladri, forse qualcuno ce n’era, ma non si può dire che le requisizioni non siano proprie di ogni conflitto armato (per di più ogni contadino che si vedeva requisire una bestia, o altro, riceveva un buono da cambiare a guerra finita).

Concludiamo con un’ultima accusa: quella di terrorismo. Che circola, sì, e metterebbe nel novero Sandro Pertini, Italo Calvino, Primo Levi.

Anche i partigiani però… è un altro strumento importante da includere nella nostra cassetta degli attrezzi, per mantenere alti gli anticorpi antifascisti e perché la storia non la scrivono sempre i vincitori, anzi…

                                                                                                                                                                                                         Recensione di Giuseppe Virone

P.S.

Consigliato come regalo per tutti quegli amici e conoscenti che “Di quello che combinavano i partigiani nessuno dice niente”.

Chiara Colombini, storica, è ricercatrice presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”.

1 De Gasperi, A., Discorso alla Conferenza di Pace di Parigi, 10 agosto 1946.

2 Fenoglio, B., Il partigiano Jhonny, Einaudi, Torino 1968.

3 Le cifre sono citate da Colombini a p. 67. La fonte è l’Atlante delle stragi nazifasciste, consultabile al sito: http://www.straginazifasciste.it/

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